lunedì 1 aprile 2024

G. de Santillana, Hertha von Dechend, Sirio

 


G. de Santillana, Hertha von Dechend, Sirio, Milano, Adelphi, 2020



P. 25, il significato astronomico del mito (e dei geroglifici egizi), la fonte citata è Macrobio (Commentarium in Somnium Scipionis).

P. 29, l’errore di Descartes, vedi anche Guénon, Il regno della quantità e i segni dei tempi.

P. 32, i vari livelli della realtà, vedi Guénon, op. cit. Il concetto di cosmo come gerarchia di mondi.

P. 43, validità della tradizione ermetica, vedi Giordano Bruno. I Decani, le potenze che governano i pianeti testimoniate sia dai libri ermetici che dalla tradizione araba (al-Qazwini). L’universo appare pervaso da forze divine.

P. 48, miti sulla Precessione degli equinozi e su Sirio.

P. 60, il significato astronomico del remo di Odisseo. Probabilmente si tratta di un’allusione all’asse terrestre.

P. 64, riferimento all’Apocalisse (Cristo che tiene le sette stelle nella mano destra). Si tratta di un’immagine del cosmo divino ?

P. 91, 92. La materia preesistente all’operato del Demiurgo. Il Demiurgo ha agito su di essa ponendo ordine (κόσμος) e introducendo il tempo (Χρόνος). Importanza del Timeo di Platone, il Demiurgo è definito “il vero e proprio nucleo dell’antica cosmologia”.

P. 95, su Δίκη e Tao. Δίκη è il cammino della vita di ciascun essere naturale e il corso regolare dell’universo.

P. 97, 98, gli dei erano numeri. La Metafisica di Aristotele e altri testi “confermano a chiare lettere che gli dei sono pianeti, costellazioni, Decani, elementi e figure geometriche”.

P. 103, l’Eclittica, il Diverso ossia la diagonale cioè il male (vedasi il Timeo, 36 c, di Platone).

P. 114, sulla Precessione. Il moto antiorario è attribuito al malvagio Seth-Tifone.






venerdì 29 marzo 2024

Venus aenigmatica

 

Fu come un giglio sul tenero prato

solo in disparte, rivolto al suo fato,

a luce diurna, a notte silente

tutto rivolto al suo tempo fuggente.


Fu come un sogno di monti lontani,

d’albe e tramonti, d’alberi strani

in violacei bargigli morenti,

come forche di cadaveri ai venti.


Alle insidie dei venti rivolte,

quasi brame d’un cieco dissolte

nel profumo dell’aria canora,

quando al lume la luna s’indora.


Ed il chiurlo invoca il suo lutto

e la branca nasconde il suo frutto,

perché al seno virgineo inviolato

della terra ritorni e al passato.


Ma in un letto di verdi trifogli

fusti sorgono di piante novelle,

tra quei rami i verdi germogli

brillano quali in cielo le stelle.


Nel giardino ogni stelo si muove,

ogni insetto accorre alle nuove

dei compagni, formiche od onischi,

pronti all’arme e ad orridi rischi.


Per le aiuole intanto s’aggira

il fantasma di vane illusioni,

com’è dolce il suo viso a chi ammira,

come inebriano alate visioni !


Quale raggio accompagna di sole

il risveglio degli occhi lucenti,

che si schiudono di rose e di viole,

mentre arridono ai baci dei venti.


La fanciulla percorre i viali

quasi angelo che muove le ali,

quale dea fu dei tempi passati

o una ninfa leggiadra sui prati.


Ella avanza e leggera carezza

la fiorente dovizia del parco,

una guancia le sfiora la brezza

ed Amore le tende il suo arco.


Un alone di fascino arcano

la circonda di fasto persiano,

ella incede fra voci armoniose

tra il profumo di siepi di rose.


Ella ammalia col riso sonoro

ed incanta lo sguardo lucente

e seduce l’acuta sua mente

dei suoi amanti il fervido coro.


I suoi occhi sono come la notte

quando al mare si placa furioso,

chi li scorge rinuncia alle lotte

e si affida a un dominio geloso.


I suoi occhi sono un enigma,

come all’iride preme lo stigma

d’ignoto folgorando il caldo amante

che perduto a sé trae e delirante.


Ne sorride allora maliziosa

e lo stringe nel laccio senza posa,

inebriandosi di gioia sfrenata

come in selva baccante dissennata.


Come in selva baccante che cavalca,

di vendette rabbiose nella calca,

un iroso corsiero fiamme e fuoco

che scatena il sabba al corno roco.


E con occhi di serpe velenoso

lo incatena all’abbraccio furioso

e lo cinge nelle spire tenaci,

lo divora con i baci voraci.


Una volta perpetrato lo scempio,

con orrore lo respinge qual empio,

né mirare lo degna più in viso,

discacciato, vilipeso e deriso.


Ella avanza, la bella altezzosa,

nello sguardo feroce e sdegnosa,

tutta colma di un’ira diffusa,

come il capo ha di serpi Medusa.


Come fonte in cui il raggio si perde,

quando al vento le nubi disperde,

un chiarore il suo viso promana

che si volge alla tenebra arcana.


E nel buio il suo occhio profonda,

pari al gemito che il cuore asseconda,

e muggisce per la cupida brama,

qual Pasife è al toro che ama.


Ama i ganzi gagliardi e robusti,

impazzisce per i magri pelosi,

estasiata mira i bei tenebrosi,

s’accalora per i giovani fusti.


Come lupa consuma sue notti

divorando con gli occhi l’amante

sudaticcio, biondiccio e ruspante,

che di nozze ha ormai i vincoli rotti.


Trascinato da cupa passione,

rosso in volto dal sangue alla testa,

con la fregola in corpo ridesta

sembra abbia inghiottito un bastone.


Ella pure è tutta gagliarda,

sussiegosa, zuccherosa maliarda,

con le sue pupille incrociate

d’ogni lato fa piovere occhiate.


Con due dita s’arriccia i capelli

di Gorgòne roteando lo sguardo

che rimbrotta l’amante in ritardo

e lo affida ai tristi cancelli.


Sempre invasa da moto febbrile

vaga ovunque con sguardo ammattito,

pungolata da voglia virile

come al ballo nel dì di San Vito.


E allo specchio s’affida tranquilla

quando a notte il cielo scintilla,

e già pensa ai cuori domati,

dai venerei suoi occhi deviati.


Il suo sguardo ha questo che assilla :

quale elegge sua negra pupilla

sempre ignora il trepido amante,

mai sicuro d’un occhio vagante.


Ma ella sceglie mai nessuno od almeno

solo affidasi vogliosa a Sileno,

coi satiretti intreccia i suoi cori

e per gli altri le rose ed i fiori.


domenica 28 gennaio 2024

Sul Liside di Platone

 

Walter Pater scrive a proposito di Platone :


ma l'elemento di affinità ch'egli presenta con Winckelmann è quello completamente greco, alieno dal mondo cristiano, rappresentato da quel gruppo di brillanti giovani nel Lysis, non anche tocco da alcuna malattia spirituale, ma che trova il fine d'ogni ricerca nello apparire della forma umana e nel moto continuo di una vita bella 1.


E Platone infatti : «… degno non solo della sua fama di bel ragazzo, ma anche di eccellente 2.»

Viene qui sottolineata la concezione greca della bellezza, che non è semplicemente simmetria di forme, ma bellezza interiore, valore, virtù. Ciò è detto nei riguardi di Liside, il bel giovinetto di cui è innamorato Ippotale. Il dialogo sfrutta le risorse dialettiche dei sofisti e abbonda di giochi di parole girando intorno alla definizione dell'amicizia. Ma pur partendo da una situazione iniziale improntata a una vaga sensualità e a un tono apparentemente superficiale, via via si svela l'indagine e la malia dell'indagatore. L'opera brilla per la fresca naturalezza delle risposte e l'ironico e inelusibile assedio delle domande. Pertanto si giunge all'inevitabile definizione del filosofo : colui che sa di non sapere e che non essendo né assolutamente buono né assolutamente cattivo è il naturale amante del bene, perché appunto è alla sua ricerca e ne sente la mancanza.

Caratteristica del dialogo è di non arrivare a nessuna conclusione. E infatti, dopo un gran discorrere su cosa è l'amicizia e vari tentativi di definire l'amico partendo dal verso di Omero « il dio conduce sempre il simile verso il simile 3» e ribaltando la sentenza di questo verso per poi ritornare a confermarla, come un serpente che si morde la coda, si giunge di nuovo al punto di partenza e non si capisce più nulla. Ma il messaggio si coglie : non è il raggiungimento della meta che conta, è la ricerca di essa che conta, perché il filosofo è colui che cerca la verità, non è il saggio che la possiede. Infatti chi è già sapiente non è più filosofo perché ha la sapienza e chi è malvagio non può amarla, solo chi non possiede la sapienza, ma ne sente la mancanza perché non è malvagio, la cerca ed è filosofo. La filosofia dunque è questo amore per la sapienza e non deve dare necessariamente delle risposte, infatti essa esaurisce il suo compito essenziale nelle domande.

E nella descrizione dell'atteggiamento di Menesseno e Liside, del pudore da innamorato di Ippotale e nelle scene di vita quotidiana (i pedagoghi che sul far della sera vengono a prendere i loro pupilli per portarli a casa) traspare la profonda umanità di Platone, la sua “simpatia” ossia la consapevolezza della comune natura umana e la condivisione dei sentimenti e delle emozioni. Platone sa di essere un uomo che cerca la verità, ma non l'ha ancora raggiunta, tant'è vero che il protagonista del dialogo è Socrate, colui che sa di non sapere. Forse nel Timeo potrà apparire come chi ha colto ormai la verità e conosce, ma io non credo a un Platone dogmatico, perché nel Timeo dopo tutto espone più che altro le tesi pitagoriche che in qualche modo gli danno ragione dei fenomeni del mondo. E se oggi proviamo interesse per gli scritti di Platone non è certo per la scienza del Timeo.




1 Walter Pater, Il Rinascimento, Napoli, Ricciardi, 1925, p. 166

2οὐ τὸ καλὸς εἶναι μόνον ἄξιος ἀκοῦσαι, ἀλλ᾽ ὅτι καλός τε κἀγαθός. Platone, Liside, 207a, Tutte le opere, Roma, Newton, 1997, vol. III, p. 155.

3 Odissea, XVII, 218

domenica 14 gennaio 2024

Il Dioniso di Walter Pater

 

La concezione che Pater ha di Diòniso 1 è diversa da quella di Nietzsche. Il filosofo tedesco sulla scia della Poetica di Aristotele collega il culto dionisiaco a sacrifici cruenti (soprattutto del “capro”), mentre Pater ne fa una sorta di divinità della vite, derivata dall'originario culto degli alberi, e in seguito in un simbolo della vita di tutte le cose che fluiscono, come la linfa, come il vino, come la stessa transitoria vita umana. Il suo simbolo, la vite e la coppa, saranno poi con il Cristianesimo il vino-sangue e il sacro calice.

C'è tra la concezione di Nietzsche e quella di Pater un vero abisso. Il tedesco pone a fondamento del culto di Diòniso il suo sacrificio cruento e la sua rinascita o resurrezione, mentre per Pater Diòniso è la vita della pianta di vite, il simbolo più elevato di una concezione naturalistica dell'esistenza, che si circonda di simboli animali e vegetali, satiri e ninfe. Indubbiamente l'idea che noi oggi abbiamo del dionisismo è dovuta all'influsso di Nietzsche che ne ha fatto un culto cruento, sanguinoso, appunto tragico, mentre se avesse prevalso la visione di Pater forse Diòniso oggi sarebbe il dio degli ambientalisti.

Il culto di Diòniso era più antico di quello di Apollo ? Almeno a Delfi parrebbe di sì, perché il suo culto precedette quello per Apollo. A tal proposito concorda Nietzsche in una sua opera poco nota, Il servizio divino dei Greci (lezioni sul culto greco tenute a Basilea tra il 1875 e il 1878). L'affermazione più interessante è che l'oracolo di Delfi divenne apollineo soltanto tardi. Il filosofo tedesco afferma che sul Parnaso il culto di Diòniso era più antico del culto di Apollo 2. Colpisce l'attenzione l'impostazione positivistica di queste lezioni, che sembrano voler far dimenticare la “deviazione” della Nascita della tragedia 3.

Sacrificio della capra in onore di Diòniso, dapprima per propiziarsi il vino buono, dato che la cerimonia avveniva in dicembre, quando si riponeva nelle anfore il vino nuovo, poi veniva effettuato anche per i morti, spiriti affamati e assetati.

Un'altra differenza rispetto al Nietzsche. Pater ritiene Euripide « preminente come poeta del pathos » 4 mostrando di apprezzare proprio l'aspetto passionale, sentimentale del dramma. In un certo senso sotto questo aspetto si può accostare Euripide a Shakespeare.

Il canto corale in onore di Diòniso, il Ditirambo, è caratterizzato dalla musica selvaggia, questo è un aspetto in comune con le considerazioni che fa Nietzsche ne La nascita della tragedia.

Nel conferire un senso razionale al mito della folgorazione di Semele e della nascita di Diòniso 5, la vite che nasce dal terreno vulcanico arso dal sole, Pater non può fare a meno di rivolgersi nella serie delle similitudini seguenti ad accennare a Tannhäuser, e in ciò mostra la sua sensibilità estetico-musicale, e il culto per Wagner, tipico dei simbolisti.

La religione di Diòniso, in quanto culto della vite, si collega anche all'antico culto dell'acqua, grazie alle Iadi, ninfe delle sorgenti, seguaci di Bacco.

La visione di Pater è decisamente diversa da quella di Nietzsche, perché mentre in Nietzsche l'arte, soprattutto quella musicale e tragica, si risolve nella liberazione, nella catarsi o catastrofe dionisiaca, in Pater quell'elemento dionisiaco, naturale, presente nella sensibilità ellenica, si risolve, si ferma nell'idea estetica, nella statuaria, nel bello ideale e nello stesso tempo fedele alle forme terrene ed umane, nella Baccante, nel Centauro, nell'Amazzone, nel divino Apollo. Mentre per Nietzsche l'istinto artistico dei Greci trova la sua massima espressione nella tragedia e nella musica dei cori, per Pater esso culmina nell'arte plastica, nel culto “apollineo” per la bellezza.

Diòniso è incarnazione (o nome evocatore) dell'anima della vite, avente tutte le qualità proprie della pianta, la sua fragranza, il colore, i ricciuti pampini nelle abbondanti chiome floride come le foglie. E' evidente la concezione estetica di Pater aliena da qualsiasi implicazione di ordine metafisico o esistenziale o, tantomeno, tragico.

Pater concorda col Nietzsche riguardo all'origine della tragedia :


E' dai dolori di Diòniso, dunque – di Diòniso in inverno – che nasce e si sviluppa la tragedia greca; dal canto dei dolori di Diòniso, intonato durante la festa invernale dal coro dei satiri, cantori vestiti di pelle di capra, in memoria della sua vita rustica, ora l'uno ora l'altro dei quali, di tanto in tanto, esce dalla fila per sottolineare e sviluppare questa o quella circostanza della storia; e così il canto si fa drammatico 6.


Diòniso nasce dall'unione di Zeus con una mortale, Semele. Viene accostato a Persefone negli attributi di divinità invernale, che scende appunto all'Ade in inverno, le sue feste coincidono con quelle eleusine. E' portato in processione ad Eleusi col nome di Iacco, insieme alle altre due dee cioè Demetra e Core (Persefone).

A Diòniso sono attribuiti sacrifici cruenti. Oltre a essergli sacro il lupo, e da ciò la leggenda del licantropo, cioè della trasformazione in lupo, a Diòniso il mito attribuisce il sacrificio di un fanciullo, che lo simboleggia appunto come Diòniso-Zagreo. A Delfi era custodito un lupo in suo onore, a cui il sacerdote offriva in sacrificio un capretto, che rappresentava in verità la sostituzione a un fanciullo originariamente offerto. Pater riferisce l'episodio di Plutarco (nella vita di Temistocle) secondo il quale prima della battaglia di Salamina Temistocle avrebbe offerto in sacrificio tre giovani persiani prigionieri a Diòniso il divoratore (o “carnivoro”).

Dal culto di Diòniso-Zagreo, dio sacrificato e sofferente, gli Orfici derivarono l'idea di una vita consacrata all'ascetismo, alla purificazione, nella promessa di una vita ultraterrena e di una resurrezione. E' chiaro il collegamento con il Cristianesimo e questo spiega anche perché il Nietzsche, che pure non era a conoscenza del Pater, abbia firmato i cosiddetti biglietti della follia con la dicitura “ Diòniso il Crocifisso “.

Nello studio sulle Baccanti di Euripide è evidente un atteggiamento diverso rispetto al tragico greco dalla considerazione che ne aveva Nietzsche. Pater infatti considera questo tardo parto del poeta come una sorta di palinodia e quasi di ripudio della sua mentalità razionalistica e un ritorno alle origini eschilee, quando il mito si presentava nel suo alone di magica rivelazione.

L'opera fu rappresentata a Pella, alla corte del re macedone Archelao, in un paese lontano dalle raffinatezze intellettuali di Atene, ancora circondato dalla natura selvaggia. E pare proprio che nel dramma come nell'animo del poeta vi fosse un vero e proprio ritorno, in una dimensione vagheggiata con nostalgia, all'intesa tra uomo e natura.

Oltre alle interessanti riflessioni sugli effetti musicali del coro nelle Baccanti è importante l'affermazione secondo la quale il riso era l'elemento essenziale del più antico culto di Diòniso. Questa asserzione di Pater è abbastanza in contrasto (ma forse no) con la tragicità invece riscontrata da Nietzsche nel mito stesso di Diòniso. Penso però che Pater qui volesse sottolineare soprattutto l'elemento ferino, selvaggio e puramente istintuale rappresentato dal dio e ciò in effetti non è in contrasto con la visione di Nietzsche.

Ritorna in considerazione la figura e il mito di Diòniso, che Euripide ha sottoposto al suo sofisma, cioè ha trasformato l'invasamento delle Baccanti in pura e improvvisa follia. Ma Pater coglie ugualmente la presenza, sottesa al significato stesso di tragedia, del mito. Un mito davvero singolare, nel quale il dio omofago e meilichios, dolce come miele ma anche bevitore di sangue, si presenta come il cacciatore e nel contempo la preda. Un mito selvaggio, nato sugli aspri monti di Tracia e connesso a quel filone di leggende collegato alla vita agreste e ai rituali della fecondazione dei campi e della rinascita della vegetazione in primavera dopo la sterilità dell'inverno.

1W. Pater, Studi greci (1895), Milano, SE, 2007

2Erwin Rohde recepisce la concezione dell'apollineo e del dionisiaco, ma non contrappone le due divinità, come invece fa Nietzsche. Rohde dimostra che l'elemento apollineo e il dionisiaco, un tempo forse antitetici, nell'epoca classica, e quindi nella tragedia, erano complementari (E. Rohde, Psiche. Culto delle anime e fede nell'immortalità presso i Greci, 1890-1894, Bari, Laterza, 2006, p. 315, 316 e p. 320, 321).

3F. Nietzsche, Il servizio divino dei Greci, Milano, Adelphi, 2012, p. 177.

4Op. cit. p. 20.

5 Per la nascita di Diòniso vedi le Immagini di Filostrato, precisamente il cap. 14 “Semele”, p. 58 in Elder Philostratus, Imagines, Harvard, Loeb Classical Library, 2000.

6Op. cit. p. 29.

martedì 26 dicembre 2023

Il dramma musicale

 

L'indagine di Schuré coincide con l'asserto del Nietzsche nella Nascita della tragedia, anche il francese considera il dramma musicale


la forma drammatica più elevata e più completa che l'arte umana è riuscita a creare. Questa forma apparve la prima volta, con una purezza e una maestà senza pari, nella tragedia greca 1.


Quell'unità dell'Arte che i Greci avevano realizzato, quell'unità dell'Uomo, ora è distrutta nonostante il progresso della scienza e della tecnica,


l'unità dell'uomo è distrutta, il suo equilibrio è rotto. Non altrimenti l'arte divina non è più viva : vive solo nelle sue parti. Le due Muse sorelle, che furono unite, sono adesso separate. Vuol forse dire questo che ciascuna basta a se stessa ? Ambedue lo credono, lo dicono; ma non è così, e istintivamente esse non fanno che cercarsi 2.


Sede dell'unità originaria di musica e poesia è il dramma musicale. Sia Shakespeare che Beethoven mostrano di anelare all'antica unità, ma è soprattutto Wagner colui che ha tentato di riunificare le due arti.


Il popolo greco fu il popolo educatore per eccellenza. Se l'arte è stata lo scopo unico della sua vita, riconosciamo che tutta la sua vita, pubblica e privata, è stata un'opera d'arte 3.


La scintilla divina che giace sopita nell'uomo dei secoli precedenti e seguenti si è rivelata appieno nel mondo ellenico e ha dato vita alla civiltà della bellezza, dell'umanità più elevata e aristocratica che ci sia mai stata. Schuré al contrario di Nietzsche punta il dito su quello che a lui sembra essere il pregio principale di quella civiltà, cioè l'equilibrio, la razionalità, l'armonia d'anima e corpo. Ma dopo tutto questa è una concezione che anche il Nietzsche condivide (come tutti gli uomini colti del suo tempo).


Il genio ellenico culmina nell'arte tragica. Nel mito questo è il regno del mago Dioniso, che nel tempio augusto della tragedia svolge i destini degli uomini e degli dei 4.


Come si vede, Schuré non si discosta poi molto dal dionisismo di Nietzsche.

Il mito viene fatto risalire ai primordi della civiltà greca, quando l'uomo era ancora primitivo ma


chi può assicurarci che l'uomo primitivo non abbia avuto un sentimento della vita più vero di noi, con tutte le nostre scienze e tutte le nostre filosofie 5?


L'ebbrezza pànica, la mistica unione col tutto, ecco gli stessi ingredienti del dionisismo nicciano :


ebbrezza senza confini, profondo amplesso dello spirito e della natura, simile a quello della terra e del cielo nell'uragano. Da questo grande, ardente amplesso nacquero gli dei 6.


Se il Nietzsche ci parla di apollineo e dionisiaco, Schuré forse più esattamente si rifà ai due elementi opposti ma indispensabili dell'anima ellenica cioè quello orgiastico dei riti di Cibele e dei coribanti e quello euritmico dello Zeus pelasgico, simbolo di luce, saggezza e misura. Due entità opposte ma compenetrantisi, il Cielo e la Terra, Zeus e Cibele, il culto pelasgico e quello frigio sono per Schuré gli elementi originali di quell'antitesi che sta alla base della futura tragedia e che Nietzsche ha identificato in divinità posteriori e seguenti all'epoca omerica. L'interpretazione di Schuré mi sembra più calzante e attendibile.

La musica assume un'importanza fondamentale per lo sviluppo della lirica greca, nata appunto dalla stessa ispirazione musicale 7. Schuré intuisce molto bene che la metrica greca è prima di tutto notazione musicale e in ciò la lirica antica si distingue nettamente da quella moderna, in cui la metrica è un dettaglio secondario rispetto all'ispirazione poetica (e infatti molta poesia moderna potrebbe anche essersi espressa in prosa, vedi Shakespeare che alterna versi a prosa).

Dopo le belle pagine dedicate a Saffo, Alceo, Alcmane e Pindaro, in cui si sottolinea l'importanza della coesistenza di musica e poesia, nonché della danza, soprattutto in Alcmane e Pindaro, ecco che si arriva al punto fondamentale per collegare quest'opera con quella di Nietzsche e cioè il culto di Dioniso.

Schuré, trattando del culto dionisiaco, cita in nota La nascita della tragedia dallo spirito della musica di Nietzsche, e le assegna la data del 1870. Senza dubbio l'opera precede di qualche anno quella di Schuré, altrimenti è ovvio che il francese non l'avrebbe potuta citare. E' interessante, comunque, l'apprezzamento da parte di Schuré, quando sappiamo che in ambiente filologico tedesco il libro del Nietzsche fu piuttosto denigrato. D'altra parte tra i due autori vi sono non pochi punti in comune, uno dei quali è senza dubbio l'entusiasmo poetico.

Generalmente in accordo con Nietzsche, Schuré attribuisce alle tragedie di Eschilo il preponderante peso del coro e l'impeto musicale che sostiene tutto l'impianto dell'opera. Con Sofocle comincia a stagliarsi sullo sfondo del coro l'eroe e ad essere rappresentato in modo più realistico. Tuttavia, se si sottrae alle tragedie di Sofocle il coro, le si priva della loro componente essenziale. Tanto in Eschilo che in Sofocle l'elemento religioso e musicale, cioè, per dirla con Nietzsche, dionisiaco, è inscindibile dall'opera drammatica.

Non è detto esplicitamente, ma (anche nel brano citato da Opera e dramma di R. Wagner) è evidente che l'atto d'amore assoluto d'Antigone prelude al messaggio cristiano. Qui Schuré mostra il suo punto di vista radicalmente diverso da quello di Nietzsche, l'istinto dionisiaco viene superato dalla superiore coscienza dell'essere uomo.

A proposito di Euripide Schuré si attiene sostanzialmente al giudizio di Nietzsche di cui riporta l'espressione secondo la quale Euripide portò sulla scena lo spettatore. Anche a parere di Schuré il senso critico è stato fatale ad Euripide perché ha soffocato il poeta ch'era in lui. Il giudizio sulla commedia di Aristofane e poi sul dramma “borghese” di Menandro è sempre concorde con quello di Nietzsche. L'Arte vivente della tragedia venne sostituita dalla letteratura così come al grande greco dell'epoca classica animato da eroismo e amore della misura e del bello, subentrò il greculo meschino dell'età romana.

Sia Schuré che Nietzsche (cap. 11 de La nascita della tragedia) riportano l'aneddoto riferito da Plutarco ne La morte degli oracoli e cioè il grido udito dal navigante che costeggiava l'isola di Paxo e che annunciava la morte di Pan. Questo racconto di Plutarco 8, diversamente interpretato da Frazer e Reinach, evidentemente colpì molto la fantasia dell'autore francese e del filosofo tedesco, sicuramente per il suo fascino romantico .

Interessante, relativamente a Shakespeare, la considerazione della musica celeste del dramma La tempesta che si contrappone alle tempeste dell'anima proprie della precedente produzione artistica del grande inglese. Shakespeare è visto infatti come l'evocatore delle passioni più violente dell'animo, conoscitore di tutto quel mondo magmatico e vario che s'agita mirabilmente nel cuore umano.

Nelle pagine seguenti Schuré delinea il ritratto artistico di lord Byron, genio del romanticismo ribelle, assetato di libertà, ma è nell'opera di Shelley che vede il ritorno al panteismo ellenico, la riconquista dell'armonia originaria perduta e di una musica che risulta dall'accordo universale di tutto il creato. E questa celebrazione di un risorto paganesimo è presente nell'Ode alla libertà (si noti l'influsso su Carducci in Alle fonti del Clitumno) :


poiché tu gemesti, non piangesti, allorché dal suo mare di morte – per uccidere e bruciare – il serpe di Galilea uscì, strisciando, fuori, e fece del tuo mondo un mucchio di rovine indistinguibili 9!


Con Goethe ritorna il culto ellenico della bellezza vivente. Il poeta tedesco fonde insieme il ribellismo di Byron con la religiosità panteista di Shelley, filosofo e poeta è l'araldo d'una futura Ellade che sola può dare slancio allo spirito umano, per lui la natura è l'immagine, il corpo della divinità e la scienza non è un'applicazione arida all'osservazione dei fenomeni, ma la divinazione vera e propria del verbo divino che s'agita nella materia 10.

Con Goethe la poesia ritorna al mito e


al dramma ideale che rappresenta l'uomo eterno e innalza l'arte all'altezza di una religione 11.


La poesia, tornata con Shakespeare alla mimica viva e suggestiva, col Fausto ritorna verso la musica e già sembra tenderle la mano fin quasi a toccarla 12.


Dopo la storia della poesia da Dante a Goethe, inizia la storia della musica dal Rinascimento in poi. Quando con Goethe la poesia raggiunge il suo più alto grado di idealità tende a trasformarsi in musica, la quale in poesia non è testimoniata dalla sonorità verbale, ma dall'alto grado di universalità dei contenuti e di idealità d'espressione. Nella musica lo spirito umano viene a contatto con il mistero profondo della Vita universale, con la Volontà di cui aveva già parlato Schopenhauer. La concezione di Schuré nella sua esaltazione di Goethe e della musica (nonché di Wagner) si avvicina moltissimo a quella di Nietzsche. In fin dei conti Faust è un precursore di Zarathustra, forse Zarathustra un po' meno rivoluzionario (e per nulla misogino !).

Interessante la nota a piè di pagina 13, nella quale Schuré rivela con chiarezza l'influsso diretto della filosofia di Schopenhauer nella sua concezione della musica. Del resto tale concezione è la stessa di Wagner, del romanticismo decadente. Ma in un punto Schuré non concorda con il filosofo tedesco e quindi neppure col Nietzsche, cioè nel fatto di considerare il noumeno, l'al di là del fenomeno, il Wille, come Natura incosciente. Per Schuré si tratta invece di Natura cosciente e in questo la sua posizione si avvicina a quella dello stoicismo e di Spinoza.

Schuré, a proposito del Palestrina, definisce la musica moderna come “sentimento infinito“, mentre quella di Palestrina sarebbe armonia pura.

Schuré ci informa riguardo alla musica greca in maniera decisamente dettagliata, distinguendo i modi musicali ellenici, cioè lo ionio, il lidio, il dorio, il frigio. Queste nozioni non ci sono in alcun modo fornite dal Nietzsche, la cui argomentazione si mantiene sempre piuttosto generica. Il passaggio dalla melodia all'armonia si ha con la fusione dei vari e distinti modi e questo avviene con la musica rinascimentale.

Lo scrittore francese fa derivare la sinfonia dalla danza :


La sinfonia di Haydn è dunque la danza armonizzata 14.


E inventore della sinfonia è appunto secondo Schuré proprio Haydn.

E' importante l'affermazione secondo la quale


Mozart diresse il fiume inesausto dell'armonia nell'intimo cuore della melodia come per darle tutto il fervore del sentimento che risiede nel cuore dell'uomo 15.


Inoltre


fa cantare gli strumenti con una passione in cui si sente il desiderio della voce umana 16.


Dunque l'intenzione della musica, se non vuol naufragare nel mare dei suoni, è pur sempre quello di volgersi alla poesia, cioè alla creazione di un cosmo di immagini, di sentimenti, di pensieri in germe.

Beethoven è definito lo Shakespeare della musica. In particolare è apprezzata la famosa sonata patetica :


Il fiume della sua melodia scorre libero e grandioso al di sopra delle dighe formali. Ci incanta e ci avvolge quella melodia infinita, in tanti dei suoi adagio. Ricordiamo qui solo l'adagio cantabile della sonata patetica. Come non riconoscervi il canto che vien direttamente dall'anima, prima e al di sopra del linguaggio articolato, dolce cantilena che afferma un amore ineffabile di cui l'obbietto ci sfugge, ma di cui l'essenza divina si espande in un abbandono, in una dedizione senza limiti 17?


Seguono osservazioni tratte anche dagli scritti di Wagner sulle sinfonie di Beethoven, tra le quali la nona esprime una sorta di religione dionisiaca, un inno alla vita, alla divinità che si manifesta in tutti gli uomini, alla fratellanza universale.

Considera artificiale l'origine dell'opera lirica. Il tentativo di unificare poesia e musica sfocia nel melodramma, ma la sua origine non è spontanea, esso nasce nelle corti dei signori e non è un prodotto ingenuo del popolo né corrisponde a un intimo bisogno dell'anima.

Accusa l'opera italiana e in genere l'opera lirica di avere realizzato un'illusoria fusione delle tre arti, di fatto di avere messo insieme parti tra loro profondamente diverse e di avere dato vita a un meccanismo in cui trionfa l'artificio a discapito della naturalezza, tutto insomma è finto nell'opera lirica, è affettazione e subordinazione alle esigenze melodiche di un momento culminante, avendo come mira un semplice effetto musicale che risalta come una macchia di colore su un abito logoro e sbiadito.

Il capitolo su Gluck è originale per la tesi che individua nel compositore tedesco il creatore del dramma musicale, come Beethoven è stato l'Omero della sinfonia, Gluck è stato l'Eschilo del dramma musicale ed ha fatto rivivere l'essenza dell'antica tragedia greca. Questo il parere di Schuré, che considera l'Orfeo di Gluck come la rivelazione del suo genio musicale e il ritorno della tragedia e del mondo ellenico. Effettivamente i recitativi di Gluck insieme ai cori hanno qualcosa della tragedia antica. Ma questo insistere sul genio di Gluck in quanto interprete musicale del mito di Orfeo ed Euridice emulo degli antichi tragici greci, anzi, in quanto la musica dei moderni con la scoperta dell'armonia è superiore a quella degli antichi, superiore addirittura agli stessi Greci, mi sembra esagerato. Del resto nella tragedia antica non era certo la musica l'elemento fondamentale, ma piuttosto la parola, anche se il motivo ispiratore poteva condensarsi in qualche melodia. Mi sembra che, come in genere nella cultura ottocentesca, la concezione dell'unione primitiva di poesia, musica e danza fosse basata sull'equivoco, e l'equivoco era che queste arti fossero per così dire fuse nella tragedia o prima nell'opera di Pindaro. Ma pensare a una intima fusione delle arti è un assurdo. Si può invece pensare a un linguaggio poetico, qual era appunto, estremamente metaforico, allusivo e talvolta misterioso e per ciò tanto più suggestivo. Che cioè il risultato, l'efficacia della poesia gareggiasse nella capacità suggestiva ed evocativa con la musica, questo può ragionevolmente considerarsi una sorta di unione con la musica, ma è ovvio che la parola e il puro suono sono cose diverse, così come lo è il movimento armonioso del corpo.

Direi che unione di poesia e musica si realizza laddove la parola svolge la stessa funzione di una melodia, e molti versi insieme quella di una sinfonia, cioè la funzione evocatrice, allusiva, che è di per sé fonte di sensazioni, sentimenti, fantasie la cui origine è del tutto irrazionale e scaturisce dalle regioni ignote dell'anima, dall'inconscio. Un esempio può essere offerto dai sonetti di Shakespeare, pregevoli proprio per il loro carattere squisitamente alogico e musicale, la stessa passione d'amore, che ne è l'argomento esclusivo, difficilmente si può cogliere nella sua realtà, ma è sempre sfumata, suggerita, evocata nel ricordo della bellezza come un motivo musicale che ci ossessiona pur avendone perduto la traccia.

Quando al dramma musicale si dedicano musicisti puri come Mozart e Rossini ecco che esso scompare per dare luogo all'opera lirica originaria dove la melodia la fa da padrona. Allora la musica governa sovrana e la poesia e la danza le sono sottomesse, è impossibile la nascita del dramma perché il poeta non esercita più il suo ruolo ma è una figura di secondo piano, è un librettista, un rimaiolo che scrive secondo le esigenze del musicista creatore di belle melodie. Solo in Wagner il poeta si è imposto al musicista e infatti la sua musica è squisitamente evocativa, allude a qualcosa fuori di sé o nascosto in sé.

Pur essendo l'argomentazione di Schuré assai suggestiva, non mi convince del tutto. Secondo lui con Wagner la musica si unisce finalmente alla parola e non la sovrasta né la rende sua schiava perché è una musica essenzialmente drammatica e scaturisce dall'impeto stesso dell'azione scenica. A mio parere al contrario si tratta di una musica che, come ha bene intuito il Nietzsche, costituisce lo “spirito” della tragedia e perciò è prima e dopo di essa, tant'è vero che la si apprezza maggiormente se ascoltata senza il canto degli attori, separata dal testo del dramma. Allora si coglie veramente quello che Schopenhauer intendeva per Volontà, per espressione della pura e semplice Volontà nell'arte suprema e cioè nella musica. L'arte dei suoni all'epoca di Wagner, e anche prima, era troppo evoluta, troppo complessa per limitarsi ad essere ancella della parola, questo poteva accadere soltanto all'epoca dei Greci, dal momento che essi ignoravano tutte le risorse dell'armonia. E così si rivela l'equivoco di fondo 18 sul quale volle reggersi la teoria di Wagner e di Schuré, il fatto che con Wagner e prima con Gluck si fosse ritornati alla tragedia antica. Nulla di più falso e di più illusorio. La musica dei Greci doveva essere di una semplicità veramente sbalorditiva per noi, pari a una cantilena o al più ai canti gregoriani (che già rappresentano uno sviluppo dell'arte). Lo “spirito” della musica poi è un altro equivoco, perché Nietzsche probabilmente nella sua concezione della musica dionisiaca aspirava, come dimostrò, a qualcosa di sostanzialmente diverso dalla musica di Wagner, ma il fatto di aver dedicato la sua opera a Riccardo Wagner ha contribuito in maniera irrimediabile all'investitura del musicista tedesco quale restauratore dell'antica tragedia.

1 Edouard Schuré, Storia del dramma musicale (1872), Milano, Bottega di Poesia, 1924, p. 11

2 Ivi, p. 12

3 Ivi, p. 20

4 Ivi, p. 22

5 Ivi, p. 26

6 Ibidem.

7 Cfr. Cicerone, Orator, 183

8 Plutarco, De defectu oraculorum, 17

9 P. B. Shelley, Liriche e frammenti, a cura di Cino Chiarini, Firenze, Sansoni, 1985, p. 152, strofa 8 di Ode to liberty.

10 Cfr. I. A. Chiusano, Vita di Goethe, Milano, Rusconi, 1994, per il panteismo di origine spinoziana del poeta tedesco.

11 Op. cit. p. 145

12 Ibidem.

13 Ivi, p. 154

14 Ivi, p. 185

15 Ivi, p. 186

16 Ibidem.

17 Ivi, p. 189

18 Anche G. Colli in Apollineo e Dionisiaco ritiene il dramma estraneo all'essenza della musica. Cfr. G. Colli, Apollineo e Dionisiaco (1940), Milano, Adelphi, 2012, pp. 204-210.

sabato 23 dicembre 2023

Arthur Schopenhauer, Critica della filosofia kantiana

 


Arthur Schopenhauer, Critica della filosofia kantiana in Il mondo come volontà e rappresentazione, vol. II, Bari, Laterza, 1991


Scheda di lettura


P. 541, riconosce in Kant il suo maestro moderno, insieme agli antichi scritti induisti e Platone.

P. 544, NB : Hegel definito “goffo ed insulso”.

P. 547, Kant afferma sostanzialmente che le verità dogmatiche sono frutto della mente umana.

P. 548, mi sembra che qui Schopenhauer forzi un po' il testo di Kant, perché K. non dice che il comportamento umano sia forzatamente morale, ma è morale perché segue la legge morale. Invece S. afferma che il comportamento è determinato assolutamente dalla cosa in sé.

Ibidem, NB : elogio di Giordano Bruno, paragonato a Platone.

P. 556, attacca con veemenza gli idealisti, la cui filosofia ritiene senza senso.

P. 559, rimprovera a Kant di non aver a sufficienza distinto la conoscenza astratta dall'intuitiva.

P. 561, rimprovera a K. incoerenza e forzatura nell'uso dei termini, adattandoli al suo prefissato schema dimostrativo (senza preoccuparsi seriamente dell'oggetto della trattazione). In parole povere a Kant (come agli idealisti) interessa più il sistema che la verità.

P. 564, Schopenhauer non disistima Kant, tanto che definisce la Critica della ragion pura “l'opera più importante della letteratura tedesca” !

P. 566, rimprovera a Kant di non aver debitamente separato la conoscenza intuitiva e l'astratta.

P. 569, Kant commette un grave errore nella mistione della conoscenza intuitiva con l'astratta. Questo passo falso inficia tutta la sua teoria della conoscenza.

P. 570, Kant afferma all'inizio che l'intuizione sta a sé, che ci è data.

P. 571, nel subordinare tutta la natura all'intelletto, K. è chiaramente padre dell'idealismo, almeno secondo l'interpretazione di Schopenhauer.

P. 572, Kant non riesce a spiegare l'intuizione del mondo esterno, di qui il suo sostanziale fallimento.

P. 573, posizione chiaramente antiidealistica di Schopenhauer, mentre Kant, facendo dipendere la natura dall'intelletto, inizia la tradizione idealistica.

P. 574, dicendo che Kant nega che l'intuizione sia intellettuale, mi sembra che S. sia un po' troppo severo e tenda a giocare con le parole.

Ibidem : il discepolo è uno specchio d'ingrandimento degli errori del maestro. Detto valido per ogni epoca.

P. 575, grande errore di Kant fu introdurre un oggetto della rappresentazione tra la rappresentazione e la cosa in sé, di cui si sarebbero valse le categorie, ma sia l'uno sia le altre sono superflue. Di qua l'assoluta inutilità della dottrina delle categorie, vera e propria acrobazia cerebrale, che oscura la filosofia di Kant.

P. 580, è evidente che quando K. afferma che degli oggetti si hanno concetti, sbaglia ed ha invece ragione Schopenhauer dicendo che degli oggetti abbiamo intuizioni, perché i concetti sono astrazioni.

P. 581, l'amore per l'astrazione condusse Kant all'errore fondamentale dell'elaborazione del concetto puro.

P. 582, S. fa dell'ironia sull'oscurità della filosofia di Kant nel cap. “Sullo schematismo dei concetti puri dell'intelletto”.

P. 584, l'invenzione aberrante delle categorie è dovuta all'errore psicologico di K. dell'elaborazione architettonica, cioè ipotassi, a tutti i costi. E questo ovviamente non solo nel periodare, ma anche e soprattutto nella deduzione logica.

P. 586, per S. l'unica vera fonte di conoscenza è la conoscenza intuitiva, per Kant è quella concettuale.

P. 588, (contro gli idealisti) il mondo intuitivo non corrisponde affatto alla forma della riflessione, la quale potrebbe adattarsi così com'è anche a un altro mondo.

Ibidem : inconsistenza della deduzione delle categorie.

P. 589, dove parla del giudizio generale, speciale e particolare S. non è molto chiaro.

P. 592, si ha giudizio categorico solo dove viene espressa la causalità.

P. 601, 602, false considerazioni di Kant e di Aristotele sul concetto di necessario e accidentale. Il necessario assoluto (cioè libero da cause) è impossibile, l'accidentale se visto come effetto di una causa non è tale ma necessario. Senza dubbio l'argomentazione di Schopenhauer è più precisa, meno “tedesca” e più concreta.

P. 606, infondatezza della teoria delle categorie, dovuta alla mania simmetrica e architettonica di Kant.

P. 607, la tavola delle categorie è una gabbia basata su considerazioni casuali e arbitrarie, meglio : denominazioni casuali e arbitrarie.

P. 610, la materia è la rappresentazione della causalità ed esiste solo relativamente all'intelletto, la cui facoltà consiste nel riconoscimento di causa ed effetto.

P. 611, errore fondamentale di Kant : la mancata distinzione tra conoscenza astratta e conoscenza intuitiva.

P. 612, grande errore di Kant di avere sottovalutato l'intuizione a vantaggio del concetto astratto, anzi di averla considerata come un apporto della sensazione e di avere affermato che contribuisce alla conoscenza solo il concetto astratto ! Ibidem, invece per S. nell'intuizione “si obiettiva la cosa in sé”, l'intuizione è il fondamento della conoscenza.

P. 615, Kant confonde sempre la conoscenza data dall'intuizione con quella del pensiero e quindi dà luogo a una grande confusione. K. salta subito al pensiero astratto, senza analizzare il passaggio dalla sensazione al pensiero, senza definire né sensazione, né intelletto, né ragione. Fenomeni e noumeni sarebbero intesi da K., in senso suo proprio soltanto, come realtà manifesta e cosa in sé immanifesta, mentre il loro significato originario è quello relativo alla conoscenza intuitiva e alla conoscenza astratta. E' qui che K. non indaga, dando per scontata l'esperienza nella conoscenza intuitiva e non separando quest'ultima dall'astratta.

P. 616, invece di opinabili categorie, non avrebbe fatto meglio K. a ricorrere alle forme proprie della grammatica, ad es. sostantivi, aggettivi, verbi ?

P. 623, Schopenhauer non considera la ragione umana una facoltà principe come fa Kant, tanto che per lui l'incondizionato per la ragione è un nonsenso. S. attribuisce maggiore importanza all'intelletto e all'intuizione.

P. 626, Kant nella sua ricerca dell'incondizionato non è stato tanto guidato dalla ragione quanto dalla religione, egli perviene con sofismi a dimostrazioni pseudorazionali.

P. 627, 628, le notizie che S. fornisce del fatto che Platone avrebbe derivato la sua concezione della divinità da Mosé, sono errate. Platone è un seguace del pitagorismo e dell'orfismo, non aveva nessuna notizia della religione ebraica.

P. 629, Kant fa un cattivo uso della parola idea, perché la intende come concetto astratto, mentre il suo vero significato platonico è “immagine, visione” e la sua comprensione non è affidata alla riflessione razionale, ma all'intuizione.

P. 630, errore di Kant nell'identificare il quid metafisico nel soggetto, perché quest'ultimo appartiene alla logica, se identificato giustamente nella sostanza esso allora in quanto sostanza permanente è la materia. Equivoco di Kant che ha identificato soggetto e predicato in sostanza e accidente e ha confuso concetti astratti propri della logica e del regno della ragione con oggetti intuiti dall'intelletto in un rapporto diretto con il mondo fenomenico.

P. 633, contrariamente al procedimento logico della ragione che ricava i concetti generici dall'assemblaggio di quelli specifici, il concetto generico di sostanza fu ricavato soltanto da quello specifico di materia, in quanto un suo accidente, la permanenza, venne preso come unico significato di sostanza. Si tratta perciò di un'operazione di falsificazione volta solo a incamerare nel concetto di sostanza di per sé fasullo il concetto di sostanza immateriale accanto a quello della materia, di qui il concetto falso di anima intesa come sostanza.

P. 635, le categorie di Kant sono derivate dalla sua mania della simmetria, puri sofismi.

P. 639, cita il libro di Giordano Bruno, De l'infinito, universo e mondi, S. apprezza molto il Nolano.

P. 641, l'ammettere un principio nella serie delle cause, risulta surrettizio e falso.

P. 644, l'infinito non è esauribile con alcuna rappresentazione, cioè non si può pensare l'infinito. Per altro il mondo non esiste in sé, ma solo nella rappresentazione, vale a dire che la totalità non esiste e l'incondizionato non è conoscibile. NB : il mondo deve esistere solo nella rappresentazione del soggetto, che può seguire la serie di cause e di effetti all'infinito nel regresso (ma mai nel progresso !).

Si noti che se l'infinito non è conoscibile né si può supporre un principio dello spazio, allora il Soggetto primo (Dio) deve essere fuori della serie delle cause. Ciò dà ragione a Platone e alla sua concezione del Demiurgo, non creatore, ma ordinatore del mondo. Allora il Soggetto non è neppure infinito e non si identifica con l'universo, ma è Intelligenza che conosce e opera. Vide Cicerone, Tusculanae disputationes, I, 25 e Platone, Timeo, 38 a e 39 b. (Il corsivo è mio).

P. 647, Kant ha erroneamente ritenuto che il substrato del fenomeno sia la cosa in sé, la quale invece non appartiene minimamente al fenomeno, ma è solo soggetto, mai oggetto.

Dal mio punto di vista, non capisco perché Schopenhauer, dopo avere indicato nella volontà dell'individuo il suo essere in sé, passi a una Volontà universale che si individua nel singolo, visto come momentanea manifestazione. Io come soggetto individuale come posso essere nello stesso tempo universale ? Come posso essere cosa in sé individuale e cosa in sé universale ?

P. 648, critica la concezione di Kant della perfetta libertà umana espressa nella Critica della ragion pratica, si tratta di mera illusione.

P. 651, molto acutamente rimprovera a Kant di avere negato la presenza della cosa in sé nei semplici fenomeni della natura anche animale, tranne che nell'uomo. Si tratta infatti di una inconseguenza, se al fenomeno è sotteso il noumeno, questo deve valere per tutti i fenomeni.

Tanto per esemplificare, il termine νοούμενον è usato dagli stoici nel significato di “pensiero” (vedi Diogene Laerzio, VII, 59). Quindi la terminologia che sia Kant che Schopenhauer utilizzano non è molto chiara.

P. 654, accusa Kant di aver proseguito nella concezione della filosofia scolastica dell'Ens realissimum e di aver dato inizio all'astrazione epistemica propria dell'Idealismo.

P. 656, attacca la filosofia delle università, il cui intento è chiaramente politico.

P. 659, riconosce a Kant il grande merito di avere considerato tutta la realtà come semplice fenomeno. Kant ha aperto la via ad una nuova visione del mondo (che è quella naturalmente di Schopenhauer).

P. 663, giustamente per quanto riguarda la morale, Rousseau attribuisce più importanza alla coscienza che non alla ragione.

P. 664, cita Cicerone, De natura deorum, III, c. 26-31, riguardo alla ragione come mezzo e strumento per tutti i delitti.

P. 666, dotta dissertazione sul “nihil admirari” oraziano. Schopenhauer mostra di possedere una raffinata cultura umanistica.

P. 668, fa dell'ironia sul concetto di ragione in Kant, “il sesto senso delle nottole”.

P. 669-670, Kant non ha mai dato una definizione chiara ed esaustiva del termine “ragione”.

P. 671, il concetto di dovere incondizionato di Kant è contraddittorio e la sua concezione della virtù fine a se stessa è già in Platone.

P. 674, contesta l'impostazione teorica dell'etica di Kant basata su un complicato formalismo che invece si può risolvere nel precetto “non fare agli altri ciò che non vuoi sia fatto a te”. Ma questo è pur sempre un precetto egoistico. L'imperativo categorico disinteressato è una illusione.

P. 675, la massima della Critica della ragion pratica, del dovere per il dovere, è assurda e pedantesca. Il fondamento di un'azione a beneficio del prossimo non è il dovere per se stesso, ma l'amore.

P. 676, impostazione tutto sommato errata della Critica della ragion pratica, svolta tutta sulla falsariga della Critica della ragion pura e basata su concetti non dimostrati come dignità e felicità, la quale ultima è erroneamente collegata al concetto di virtù.

P. 677, la dottrina del diritto di Kant viene definita “una parodia satirica della maniera kantiana”, a sottolineare la sua intrinseca debolezza.